22 luglio 2015

Le mete delle vacanze: Il Solimei


Cosa facevo io d’estate. Io e i miei fratelli eravamo molto fortunati, perché stavamo via tutta l’estate. Quando finiva la scuola ricordo che a casa c’era un fermento operoso, perché chiudere casa per tre mesi era un affare serio. Non so bene cosa facesse mia madre, ma la ricordo in preda all’operosità casalinga senza fine, assieme alla mia tata, che sembrava si preparassero all’invasione della Polonia. Anche ora, che sono (pressochè?) adulta e anche madre e anche potenzialmente casalinga, non riesco ad immaginare cosa facessero tutto il giorno, per almeno una o due settimane, (e questo dovrebbe forse farmi porre delle domande). Cioè, a parte le valige. Comunque a noi bambini questa cosa ci sfiorava appena. Ricordo che mi mettevo in costume e fingevo di nuotare strisciando sul pavimento di marmo, come fanno i gatti quando hanno caldo. Ricordo che alla mattina mi svegliavo nel caldo e nella luce con le finestre spalancate e pregustavo il vuoto di una giornata senza doveri, come solo i bambini possono avere.
Poi si partiva. E le mete erano tre.
Meta numero uno.

La casa di campagna dei nonni era meta ambitissima da noi bambini, perché là c’era l’immensità della campagna, la camera con 4 letti a castello rossi in cui dormire assieme ai cugini, la libertà, il controllo parentale assai allentato, il mistero di una villa antichissima forse popolata dai fantasmi, giochi da inventare, favole da raccontarsi, mondi da immaginare, le biciclette, la fattoria “Mammi” dove andare a comprare il latte (che bisognava bollire e poi togliere la panna) e le uova, ma soprattutto a vedere gli animali e se eri fortunato c’erano anche i cuccioli appena nati di qualche mucca o maiale o cane o gatto. Della Campagna ricordo le nottate tra cugini e il vasino da notte perché era troppo buio per attraversare l’enorme loggia buissima in cui aleggiava il fantasma del Conte Solimei. 
Il vaso da notte si rovesciava puntualmente o qualcuno ci metteva il piede dentro per sbaglio, creando tutta una mitologia infantile che accomuna tutti noi cugini in un lessico famigliare indissolubile. Prima di crollare nel sonno si faceva un gran casino, si raccontavano storie di paura, si dava la caccia al grillo entrato in camera che non faceva dormire, una notte era pure entrato un pipistrello, e c’era sempre quell’odore di zampirone, che non so come non siam morti intossicati, ma era un odore bellissimo. Ricordo le biciclette, un numero imprecisato un po’ di tutte le misure, che ci passavamo a seconda dell’età, ma ne mancava sempre una, quindi c’era per l’ultimo cugino di turno, il mezzo di locomozione sfigato che era un lentissimo monopattino con cui il cugino arrancava lentissimo dietro gli altri, spingendosi con il piede forsennatamente e gridando all’ingiustizia. 
Poi intorno alla casa, nell’immenso parco, c’erano i vari mondi. Diversi, ognuno con la sua luce e con la sua favola da raccontare e la sua avventura da vivere. 
Ricordo la chiesetta, ovvero la cappella privata della villa, quasi sempre chiusa, e dalle cui finestre si spiava dentro e si vedevano paurose effigi e statue buie e arredi di legno scuro, e puzza di muffa e mistero. Dietro la chiesetta, un fico su cui una volta c’era un serpente giallissimo, che ricordava tanto una illustrazione di Adamo ed Eva. Dietro la chiesetta, un campo di grano, IL campo di grano per antonomasia, dorato, giallo perfetto, e dietro ancora, il cielo azzurro, perché eravamo nella bassa modenese, quindi era tutto piatto a perdita d’occhio, e lì capivi come per secoli il mondo poteva davvero essere stato piatto e infinito come la pianura padana. Nel parco c’era un inquietante laghetto artificiale, in mezzo al boschetto, e dentro ci tocciavano  i rami di un salice piangente che a noi bambini sembrava tristissimo per davvero, e tutto intorno c’erano le famose sabbie mobili che inzaccheravano le gambe fino alle ginocchia, e se t’impantanavi e sopravvivevi, dovevi fare i conti con le mamme. Nei periodi di siccità si formava l’isola, e sull’isola ci andavano solo i cugini grandi ovvero mio fratello Giacca e Mattia il Gigante che beveva sempre latte anche al posto dell’acqua. Il laghetto era l’incubo dei genitori, che avevano paura che affogassimo, quindi si era formata tutta un clima di terrore per cui ci si avvicinava solo di nascosto, e comunque sabbie mobili e salice piangente lo avevano fatto diventare la palude della tristezza della Storia Infinita, quindi ci si avvicinava cautamente. Vicino al laghetto c’era l’altalena, perché non c’è infanzia senza altalena, e non c’è infanzia senza i turni, litigi e guerre, per salire sull’altalena. Poi c’erano le stalle. La villa era del ‘700,  con una loggia centrale per far entrare le carrozze, ed una stalla interna per i cavalli. La stalla vecchia era buia, c’era odore di aceto perché c’erano tante bottiglie con le paurosissime madri che facevano l’aceto di vino, e qualche volta noi bambini toglievamo il cappuccio fatto di carta di giornale e infilavamo il dito per assaggiare l’aceto che era un po’ come ubriacarsi col vino rosso. Ci stavano, un po’ accatastate e ingarbugliate tra loro le bici, la pompa e le camere d’aria di ricambio o da aggiustare. C’era l’asse da stiro perché faceva fresco e lì ci si poteva stirare, e c’erano miriadi di attrezzi e oggetti polverosi e sconosciuti, e ogni volta che entravi dovevi stare attento. Poi c’era la stalla nuova, un edificio staccato dalla casa, dietro a dei cipressi  e superato l’albero su cui era stata costruita la casetta sull’albero che però poteva andarci solo il cucino grande perché era pericoloso. Nella stalla nuova c’era più luce, c’era il lavatoio e forse la lavatrice, non ricordo perché a noi bimbi le faccende domestiche non ci tangevano. Ricordo che spesso entravano le libellule giganti e poi battevano sui vetri per uscire. Dietro alla stalla nuova c’era la ghiaia, ovvero un mucchio di ciottoli che non ho mai capito perché fossero lì, ma ci avevano detto che erano molto preziosi, quindi non si potevano spargere in giro, e dunque diventavano molto interessanti ai nostro occhi, e ovviamente li spargevamo in giro. 
Lì accanto c’era la buca della sabbia e la carriola arrugginita. E poi c’era la legnaia, dove ci nascevano sempre i gattini, che, per quanto ne sapevamo, venivano generati spontaneamente dalla legna , e spasimavamo per prenderne uno, ma non c’era verso. Ricordo il bosco di noccioli (poteva essere un bosco solo per noi nani) dove ci mangiavamo chili di nocciole ancora verdi schiacciate sui sassi, e i gelsi piangenti, che erano in realtà dei tepee indiani dentro cui noi femmine ci rifugiavamo e mangiavamo le more di gelso, anche quelle ancora bianche e aspre, e ci sporcavamo la maglietta “con le more che non vengono più via”. Davanti alla casa, sotto la finestra della cucina, era cresciuto un albicocco, famoso perché si raccontava che fosse nato perché la mia mamma da bambina aveva buttato dei noccioli di albicocche dalla finestra. Poi c’era il mondo vicino alla botte e al carro, lungo uno dei fianchi della casa. C’era un grande botte di legno, sicuramente preistorica e un antico carro di legno, su cui si poteva salire solo col permesso, e a fianco un prato grande e incolto con l’erba alta che se ti sdraiavi non ti vedeva nessuno, e dietro quel campo tramontava sempre il sole, quindi era a occidente. Poi c’erano i pioppi cipressini, uno a destra e uno a sinistra del cancello di ferro battuto all’ingresso della villa, ed erano i guardiano della casa, quello più basso era la nonna, quello più alto il nonno. Da lì, partiva il viale di ghiaia bianca (il viale magico che conduceva al nostro mondo magico) delimitato dalle siepi di bosso (quell’odore non si scorda mai) in cui c’erano i nidi di ragni tigre, a righe gialle e nere. Dell’interno della casa ricordo la grande sala, col pianoforte a coda ma senza corde che le avevano rubate i tedeschi durante la guerra, la stanza del camino in cui molto raramente si vedeva un po’ di tv  con una brionvega rossa in bianco e nero, ricordo numerose stanze da letto e lo studio del nonno, in cui a volte ci faceva vedere dei filmini dei Tom e jerry con Super8, era come andare al cinema e si sentiva quel rumore della pellicola che scorre e a volte si ferma. Ricordo la cucina spartana con vecchie pentole di alluminio, e dietro la cucina, la porta quasi come nascosta, come un passaggio segreto, che portava alla stanza da letto della zia Matilde, la sorella di mia nonna, che era sempre un po’ triste. E poi c’era la soffitta, la terribile, affascinante, misteriosa, buia soffitta piena di tesori e dove ci aveva fatto il nido la civetta. Lì tutto era spettrale, la lampadina, sarà stata da 5 watt come le lucine dei cimiteri, chissà poi perché, cosicchè tutto lì dentro faceva paura, dunque era fichissimo. Ci si saliva per una scaletta stretta e oscura, e dovevi farlo di nascosto, che lì c’erano anche cose preziose, o pericolose, o sicuramente segrete.


 Il Solimei, questa era la nostra Isola Che Non c’è, e noi eravamo sia i bimbi sperduti che piterpan, e prendevamo tutti la pastiglia per restare sempre bambini, e cioè la mollica di pane impastata con lo zucchero a velo, ridotta a piccole palline appiccicaticce. Se dovessi far coincidere la fine dell’infanzia più spensierata e magica, direi sicuramente quando i miei nonni hanno venduto il Solimei, io avevo 11 anni.
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